UNTITLED #1
Chironi’s action acquires, in the accomplished post-modern time, a paradoxical, critical, opposing and provocative meaning, conveying values, concepts and ideals that seem to be obsolete and are rescued through their exemplary re-happening.
From a picture, Chironi rebuilds and restores his mother’s image by means of an extremely patient procedure; from an enlargement of the original picture, he cuts and reassembles a model to wear. Giving up his appearance, the artist sew himself a new skin, he sticks his own memory and identity on, actually displaying it, performing an overturning between inner life and outward appearance.
The painful act of sewing on the skin, that reminds of Gina Pane’s actions, primarily constitutes a linguistic paradigm and a communicative act. This is indeed why the body turns into a book for the same memory elsewhere, completely covered, as it is, with copies of the same picture. A picture that, like an echo, confirms and repeats, perpetuates and multiplies, while offering itself to the world, as serial memory and souvenir, that the artists ends up embodying. He transforms himself into it, re-wearing Lina’s real wedding dress, reaching the absolute identification, self-cancellation and shipwreck into his own origins.
Within a general continuity, there are two distinct phases: on the one hand there is the ‘investiture’ sequence, the progressive gain of the new/old identity and, on the other hand, the sequence of the mise en scène of the mother’s daily gestures and situations that belong to one’s own memory. In this acceptation, even the objects the artist surrounds himself with acquire a signifying quality.
The value of the work does not reside in the synthesis, but rather in its redundancy, in the overquotation that brings art itself back to the sphere of a collective and everyday reminiscence, with a continuous summing up that is a conscious and declarative act.
If Christian Boltanski cancels his own identity and builds himself a new one (autobiografia possibile) by accumulating, filing and assembling someone else’s memories, Chironi performs a rewind on his, re-editing and reiterating , in an absolutely liturgical way, the everyday gestures and events of his own mother. He does that by taking upon himself, by embodying, his mother’s identity, as to annul the filter of time while perpetuating it as mystery event; from self-disappearance to reconstruction through his parent, from escape to return, from loss to re-appropriation.
What remains of this interrupted narrative, which is actually segmented and apportioned in a non-progressive sequence, is the allegorical scene, where all the elements (the picture, body and objects around) constitute the signifying attributes. We are somehow reminded of the medieval imagery, of the exemplary sequences of saints’ and martyrs’ histories. Not the mystic and ascetic byzantine version of this imagery, but rather the earthly and humanised one, the one we would now call the ‘weak version’, that characterises popular romanesque sculpture and gothic painting, according to the realistic acceptation of the Giottesque school rather than to the Sienese School.
The work originates from a picture and returns to photography. The artist’s handling with photography acquires a characterising value, as a means to hold and put reality out of the reach of time. Not as a documentary support to action, but rather as work and reality in itself, somehow close to Ontani’s ‘little statues’ or to Yasumasa Morimura’s dressing-up.
At the origins of photography, Nadar described the theory of the superstitious Balzac according to which any daguerreian operation revealed, detached and held one of the layers of the photographed body by annexing it.
The spectrum that fixed itself on the plate was the constitutive essence of reality. In a completely different context, Barthes argued instead that ‘each picture is a certificate of presence’.
Even when Chironi uses the videotape, he constructs it photogram by photogram and not as a moving continuum. It is almost a reorganisation of flashbacks, whose totality shapes the drawing icon.
This is indeed why, in the exposure, in the didactic narrative’s escape, in the iconographic accomplishment, in the consistence of elements/attributes, the picture rids itself of any autobiographical element conferring to the work a collective and absolute dimension. While manifesting itself as incorrupted and incorruptible reality, it offers itself as universal imagery.
by Alfredo Sigolo, 2004
Cristian Chironi, giovane artista sardo (1974, Nuoro) lavora sulla memoria e vien da dire che, per la generazione che la memoria pareva averla persa per sempre, ciò assume di per sé valore di affrancamento e riscatto. I ricordi d’infanzia legati alla casa, la famiglia, la terra, gli oggetti, sono continuamente messi in gioco, affermati e ribaditi come saldi ancoraggi dell’identità. Ed è il corpo innanzitutto il luogo nel quale il frammento si fissa, secondo una prassi che punta a declinarlo in un’immagine statica e immutabile, iconico-narrativa ed allegorica.
La memoria dell’artista si sublima in memoria collettiva, in causa di un processo di condivisione che passa innanzitutto attraverso una sorta di espiazione che è franca messa a nudo di sé, rinuncia ad ogni preconcetto, schema, categoria acquisita. Originale nelle opere di Chironi è proprio questo rewind condotto azzerando la propria identità e ricostruendola pazientemente secondo un progetto di revisione radicale e di autoanalisi che parte dall’infanzia.
Nel tempo della postmodernità compiuta, l’azione di Chironi assume un significato paradossale, critico, antagonista e provocatorio in quanto portatore di concetti, valori ed ideali in apparenza desueti, che vengono recuperati attraverso il loro esemplare riaccadimento.
Partendo da una fotoricordo, Chironi ricostruisce e restituisce l’immagine della propria madre con paziente lavoro sartoriale: dall’ingradimento a dimensioni reali della fotografia originaria egli ritaglia e ricompone un modello da indossare. Spogliandosi della propria apparenza, l’artista si cuce una nuova pelle, si imbastisce addosso la propria memoria ed identità, di fatto esibendola, in una sorta di ribaltamento tra interiorità ed esteriorità.
L’atto doloroso della cucitura sulla pelle, nella memoria delle azioni di Gina Pane, è innanzitutto paradigma linguistico e atto comunicativo. E’ perciò che altrove il corpo diventa album dello stesso ricordo, interamente ricoperto da copie della stessa foto, di fatto eco che afferma e ribadisce, perpetua e moltiplica, offrendosi a tutti, ricordo seriale e souvenir. Che l’artista finisce anche per incarnare, per trasformarsi in esso, rivestendo i panni nuziali reali di Lina, nell’immedesimazione compiuta, nell’annullamento di sé e naufragio nella propria origine.
Vi sono, nel segno della continuità, due fase distinte: da un lato la sequenza dell’”investitura”, della progressiva conquista della nuova/vecchia identità, dall’altro quella della mise en scène di gesti e situazioni comuni riferiti alla madre e che appartengono alla propria memoria, nella qualità di ricordi. In questa accezione, anche gli oggetti di cui l’artista si circonda acquistano qualità significante.
Non nella sintesi dell’opera sta il valore ma anzi nella ridondanza, nell’eccesso citazionista che riconduce l’arte stessa nella sfera di una collettiva e quotidiana reminiscenza, in una incessante ricapitolazione come atto consapevole e dichiarativo.
Se Christian Boltanski annulla la propria identità e ne costruisce una nuova (autobiografia possibile) per accumulo, archiviazione e assemblaggio di memorie altrui, Chironi compie una sorta di rewind della propria, rieditando e reiterando, in modo assolutamente liturgico, gesti e accadimenti quotidiani della propria madre. Lo fa assumendo in sé, incarnando, l’identità della madre, sì da annullare il filtro del tempo e perpetuandolo come evento misterico; dalla scomparsa di sé alla ricostruzione attraverso la genitrice, dalla sottrazione alla restituzione, dalla perdita alla riappropriazione.
Di questa narratività interrotta anzi, per meglio dire, segmentata e parcellizzata in una sequenza non progressiva, resta la scena allegorica, in cui tutti gli elementi (la foto, il corpo, gli oggetti d’intorno) costituiscono gli attributi significanti. In qualche modo è l’immaginario medievale a tornare alla mente, nella esemplarità delle sequenze delle storie dei santi e dei martiri. E non nella declinazione bizantina, mistica e ascetica, ma in quella terrena e umanizzata, oggi diremo “debole”, della scultura popolare romanica o della pittura gotica, nell’accezione realistica della scuola giottesca più che in quella senese.
Il lavoro nasce da una fotografia e alla fotografia ritorna. E proprio il trattamento della fotografia da parte dell’artista assume valore caratterizzante, come strumento per trattenere la realtà e sottrarla al tempo. Ma non come supporto documentario dell’azione, invece come opera e realtà in sé, semmai vicina alle intenzioni delle “statuine” di Ontani o ai travestimenti di Yasumasa Morimura.
Alle origini della fotografia, Nadar descriveva la teoria del superstizioso Balzac, secondo cui ogni operazione daguerriana rivelava, distaccava e tratteneva, annettendoselo, uno degli strati del corpo fotografato. Lo spettro che si fissava sulla lastra era essenza costitutiva della realtà. Barthes, in tutt’altro contesto, afferma invece che “ogni fotografia è un certificato di presenza”.
Anche quando Chironi utilizza il video, lo costruisce per fotogrammi e non come un continuum in movimento, quasi un riordino di flashback che insieme costruiscono l’icona trainante.
Ed è perciò che, nella posa, nella sottrazione della narrazione didascalica, nella compiutezza iconografica, nella compresenza degli elementi/attributi, la foto si svuota degli elementi autobiografici restituendo all’opera una dimensione collettiva e assoluta; manifestandosi come realtà incorrotta e incorruttibile, si offre ad un immaginario universale.
di Alfredo Sigolo, 2004