GAP
(A tutti quelli che almeno una volta hanno inseguito un pallone)
Come penso capiti a tutti voi, quando guardo una fotografia, soprattutto una di quelle che hanno qualche anno, non posso fare a meno di tentare di immaginare il prima e il dopo di quell’istante che si è fissato sulla pellicola. E’ quasi una sorta di reazione istintiva, come se la mente automaticamente tentasse di ricostruire quel puzzle di realtà da cui la tessera-foto è stata prelevata. Verrebbe da dire che è una cosa naturale, e in un certo senso lo è, come ci aiutano a capire le parole di Roland Barthes in uno dei tanti punti chiave de “La camera chiara”: “Nella Fotografia, contrariamente a quanto è per tali imitazioni [ndr.: si riferisce alla pittura], io non posso mai negare che la cosa è stata là. Vi è una doppia posizione congiunta: di realtà e di passato. E siccome tale costrizione non esiste che per essa, la si deve considerare, per riduzione, come l’essenza stessa, come il noema della Fotografia.” (pag. 78).
Realtà e passato sono quindi i due elementi che formulano la sostanza della fotografia, quella che impone a noi che la guardiamo quella reazione istintiva di cui dicevo all’inizio. Naturalmente si può scegliere o meno di connettere quella realtà e quel passato al nostro presente. Farlo implica senza dubbio un cambiamento di quell’immagine, nel senso che si tenterà di rendere compatibile quella realtà con la nostra realtà, cercando una qualche congruità nell’evidenza delle differenze. È esattamente quello che ha fatto e a cui ci costringe Cristian Chironi con GAP. Un lavoro che ha il pregio di presentarsi con una forte immediatezza visiva, a fronte di un’inevitabile complessità concettuale.
La storia di GAP prende il via e almeno in parte segue quella del tenente di fanteria e appassionato fotografo Vittorio Vialli, che con la sua Voigtlander/Vito 35 mm documentò la vita dei campi di prigionia militari in Germania, in cui trascorse circa venti mesi dopo l’8 settembre del 1943. Una documentazione straordinaria per la natura delle immagini e nondimeno per le difficili condizioni in cui furono riprese. Riuscite ad immaginarvi la scena di questo ragazzo che nascondeva una macchina fotografica tra coperte e bucce di patate, che d’improvviso la tirava fuori e scattava? Era come rubare, e più di una volta deve aver rischiato punizioni pesanti, se non la vita. Non è difficile immaginare il suo respiro affannoso e lo sguardo che si gira rapido intorno dopo aver fotografato la torretta di guardia o i prigionieri inquadrati. Un rischio tanto grande quanto sconsigliabile, considerati i bisogni reali che il Vialli sicuramente aveva. A che serviva fare foto tutti i giorni, quando sarebbe stato molto più sensato rischiare per una coperta o una zuppa calda? Eppure quelle foto ci garantiscono oggi un bene prezioso, quello della conoscenza. Anzi di più: la possibilità di poter guardare con i nostri occhi quello che guardavano Vialli e gli altri prigionieri. E soprattutto di cogliere oltre quelle immagini, gli odori, la miseria e la stanchezza di uomini che avevano scelto di essere liberi nella prigionia, di non essere più complici di quella terribile follia che aveva distrutto popolazioni e nazioni. Di tutto ciò era sicuramente convinto lo stesso Vialli mentre scattava, e ancora diversi anni dopo quando aggiungeva alle immagini delle didascalie esplicative. Ne è convinto oggi Cristian Chironi, che nel ritrovarsele tra le mani ha cercato di affondarvi lo sguardo tanto da entrarci letteralmente dentro. Così come allora anche questa di Chironi, fatte le dovute sostanziali differenze, è una scelta che si può dire sconsigliabile, o perlomeno difficilmente conciliabile con la condizione in cui siamo di un presente che non lascia spazio ad altri tempi, siano essi passati che futuri. A cui si aggiunge la non secondaria difficoltà di negoziare la memoria collettiva con lo stato di individualizzazione frammentata nei diversi piani in cui si articola la realtà.
Chironi si veste da giocatore di calcio, maglia a strisce, pantaloncini bianchi, direi un classico, che riecheggia anche la tipica divisa del detenuto, e così vestito si inserisce in modo coerente, ma cromaticamente e per definizione digitale ben visibile, nelle immagini di Vialli. Perché? La scelta tematica del calcio come trait d’union tra quel tempo e il nostro, tra quella situazione estrema e il nostro comodo presente, è forse la cosa più semplice da comprendere. Chironi cerca un luogo comune, un elemento che permetta la coniugazione tra le due situazioni spazio-temporali, e lo individua in quella passione per un gioco che lì era un modo per sfuggire alla drammaticità della situazione, affermando la persistenza della vita, della speranza e della libertà, nella passione per un gioco. Come forse in pochi sanno, in molti campi di prigionia militari si giocava davvero a calcio, ed è una cosa a pensarci bene strana, ma non così difficile da capire. Persone malnutrite e non proprio serene, che decidevano di dimenticare per mezzora la propria situazione, uscendo dal campo e tornando sul campetto dietro casa ad urlare per un gol. Era la dimostrazione a se stessi e ai propri carcerieri che erano vivi, nonostante tutto. Chironi inserendosi abbigliato di tutto punto come un calciatore, diventa uno di loro, fa il tifo per loro, in quel bagliore di vita mette la propria.
Tra l’altro, e non secondariamente, non è la prima volta che Chironi utilizza il calcio e mette se stesso nei panni di un calciatore. Ha realizzato performance, lavori video e fotografici, in cui l’elemento centrale è proprio questa scelta iconica e di senso. Una scelta che com’è noto è profondamente presente nella cultura occidentale, oggetto di riflessione e di passione assoluta per molti. Il calcio secondo Sartre era infatti una metafora della vita, ma ancora di più, per Sergio Givone era la vita ad essere una metafora del calcio, affermazione quest’ultima che sinceramente trovo tanto paradossale quanto vera. Voglio poi almeno ricordare l’amore di Pier Paolo Pasolini per il calcio, e le riflessioni lucide e memorabili che ha dedicato a questo gioco. Tra le più interessanti c’è quella del calcio come sistema di segni complesso e articolato tanto da poter essere definito un linguaggio. Su questo argomento trovate pagine memorabili nel secondo volume dei “Saggi sulla letteratura e sull’arte” pubblicati dalla Mondadori.
Ma se questo del Chironi-calciatore è appunto l’aspetto visivo più semplice e immediato, l’operazione concettuale che rende plausibile questo inserimento, anzi meglio, questa immedesimazione, è invece un vero e proprio ribaltamento del suo (nostro) sguardo, e quindi della sua (nostra) posizione nel presente rispetto al passato, e in maniera estesa dello stesso presente nei confronti del passato. Chironi da dentro le foto di Vialli ci guarda, ma il dato rilevante è che siamo noi che stiamo guardando il nostro presente da dentro il passato delle foto di Vialli. Un ribaltamento che è assimilabile, e in un certo senso concettualmente debitore, a quello compiuto da una delle opere più spiazzanti e significative della Storia dell’Arte della seconda metà del Novecento, quel “Giovane che guarda Lorenzo Lotto” di Giulio Paolini del 1967. L’inversione del soggetto e dello sguardo conseguente, è infatti anche qui l’elemento decisivo di tutta la rappresentazione. Chironi sta nelle foto, ma impone a noi di guardare lui non solo dalla posizione in cui siamo, ma soprattutto da quella in cui si trovano i protagonisti di quelle immagini. Un meccanismo appunto analogo a quello dell’opera di Paolini: il ragazzo guarda Lorenzo Lotto, ma noi oltre a guardare il giovane, occupiamo una posizione analoga a quella di Lorenzo Lotto, essendo noi ad essere sottoposti al suo sguardo.
Guardare il presente dal passato è per noi un’operazione estrema, possibile in una dimensione narrativa, in una suggestione filmica, ma non altrettanto semplice nella proposizione di un’immagine isolata che impone una contorsione acrobatica al nostro rapporto di esclusività con il presente.
Uno spiazzamento che Chironi prosegue con la manipolazione degli schemi di battaglie tra partigiani e tedeschi, tracciati a memoria anni dopo gli accadimenti da Ferruccio Montevecchi. Schizzi fatti su carte geografiche, che raccontano della difesa di Monte Battaglia, dei combattimenti tra Cà dei Gatti e Cà di Guzzo, tra Cà di Malanca e Purocelo, diventano, grazie alla variazione cromatica dei segni, delle parole e dei simboli, e all’imposizione di un perimetro rettangolare in cui i piani sono rinchiusi, dei veri e propri schemi tattici di una partita di calcio, quelli che di solito un allenatore prepara durante la settimana. In questa modificazione del senso dei segni, della variazione del significato in conseguenza ad un semplice cambio del loro colore, Chironi pone l’accento sul delicato compito dell’interpretazione, sulle possibilità che piccole variazioni producano conseguenze sostanziali nella valutazione di quello che è accaduto. Può bastare poco a cancellare dei fatti, molto poco in tempi come questi, in cui lo scarso utilizzo della memoria è direttamente proporzionale ai tentativi di revisione.
Ma l’apoteosi visivo-sonora di questo percorso di azzeramento del gap temporale, e come abbiamo visto del ribaltamento che di conseguenza impone, è senza dubbio il video Gap# 7. Una serie di immagini aeree dei paesaggi italiani tormentati dalle distruzioni della guerra. Valli, fiumi, montagne, vie di comunicazione, che si alternano seguendo il ritmo dell’inno della Champions League, la più importante competizione calcistica europea e tra gli eventi sportivi più seguiti al mondo. I calciatori dicono che quando sono in campo schierati uno di fianco all’altro e sentono partire la musica, provano una delle emozioni più forti della loro vita professionale. Forse è la stessa emozione che provavano quando giocavano a pallone nel campetto dietro casa, e forse è la stessa che provavano quegli uomini che giocavano nel campo di prigionia in cui erano stati rinchiusi, o forse no. Certe cose è davvero difficile capirle attraverso delle immagini, e ancora di più attraverso delle parole continuamente gettate nell’impalpabile presente mediatico, in cui proprio le emozioni sono una merce troppo diffusa per riuscire a verificarne l’autenticità. Il presente visto dal passato di Raffaele Gavarro, 2008.