LE PETIT
Sono tornato lĂ
dove non ero mai stato.
Nulla, da come non fu, è mutato.
Giorgio Caproni
Ciò che la fotografia riproduce all’infinito
ha avuto luogo solo una volta: essa
ripete meccanicamente ciò che non potrĂ
ripetersi esistenzialmente.
Roland Barthes
Pur nella sua autonomia Le petit, 2006 si configura come un ulteriore stazione di una serie più amplia che trova la sua origine nei Senza Titolo #1 e #2 del 2001 e il suo sviluppo in opere più recenti: Singer, Lina si sveglia…, Rewind e Rowenta, tutte incentrate sul ritorno ossessivo di un’immagine: il ritratto fotografico di una giovane donna in abito da sposa.
In principio è dunque la foto o, più precisamente, una foto, sempre la stessa, che a seconda dei formati e delle declinazioni funge da icona, specchio, modello, vestito, casa, maschera, sino a divenire una sorta di pas-partout e di firma sostitutiva.
La foto, si dice comunemente, ha la capacità di fermare il tempo, di imbalsamare, un istante, un luogo, un’espressione, ha il potere di restituirci l’assente ma, contemporaneamente, proprio per questa stessa qualità medusante, ha anche la capacità di dirci la morte al futuro: “Dandomi il passato assoluto della posa… -scrive Roland Barthes- la fotografia mi dice la morte al futuro”.
In quanto “emanazione” di un “reale passato” la foto è, dunque, qualcosa da conservare, custodire, ma anche, compito immane, da ri-animare.
Come l’angelo di Walter Benjamin che vorrebbe redimere il passato e “ricomporre l’infranto”, C.C. cerca di restituire un futuro all’ è stato di un’immagine, ciò spiega il continuo oscillare dell’artista, tra fotografia, video e performance.
Benché declinata tramite diversi media, la ricerca di C. C. trova però nella fotografia, intesa come paradossale e ambivalente pharmakon , il suo ineludibile baricentro e il suo modello generatore, un modello che risulta operante anche nei video (costituiti interamente da sequenze di foto in dissolvenza incrociata) e, sia pur in maniera implicita, nelle performance live.
Grazie alla sua ineluttabile dimensione documentaria l’immagine fotografica, quand’anche proposta in proiezione, non duplica il tempo ma lo sospende, lo frantuma, lo gela, finendo così per esibire ciò che il video nasconde: la nuda verità di singole immagini che soccombono allo scorrimento.
Qualcosa di simile avviene anche in Singer, coreografia muta di una vestizione, in cui il corpo dell’artista, spinto da una sorta di automatismo, riedita e reitera, “in modo assolutamente liturgico” (Alfredo Sigolo), gesti e accadimenti memoriali, all’interno di una narrazione rituale, a-gerarchica e mono-tona, in cui le azioni necessarie a costruire la scena o a realizzare il “vestito” non trovano un culmine nella vestizione ma tendono a risolversi in se stesse e ad equivalersi. Anche qui, dunque, a prevalere è la dimensione di successivi tableaux che concorrono a sospendere più che a dar vita ad una narrazione, anche qui, un’incessante ricapitolazione di gesti che furono della madre sembra voler erodere la realtà del presente, sottrarla al tempo.
Sorge allora il sospetto che più che lavorare per rianimare un’immagine l’artista muova in direzione opposta, tenda cioè a trasformare se stesso in immagine. E’ questa infatti l’unica dimensione in cui può risolversi quell’insanabile dissidio tra “bidimensionale e tridimensionale”(Silvia Fanti), passato e presente, movimento e immobilità , in cui sembra risiedere l’elemento peculiare della sua ricerca.
Il modello fotografico, da cui l’artista si allontana solo per farvi continuamente ritorno, appare l’unico adeguato a questo compito: solo la foto, infatti, in quanto emanazione di un referente passato, appare capace di raffigurare non solo l’allora come adesso ma anche l’adesso come allora. Solo nella foto, infatti, è possibile una doppia posizione congiunta di realtà e di passato. Solo nella foto, come sottolinea Barthes, l’immagine “dell’essere scomparso” giunge “a toccarmi come i raggi differiti di una stella”.
fort/da: spettografie (note per C.C.) di Saretto Cincinelli, 2006 Â